Siamo in piena infodemia, oltre che pandemia.
Per infodemia si intende la circolazione di una quantità eccessiva di informazioni non vagliate con accuratezza che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento, per la difficoltà di individuare fonti affidabili.
Questa tematica si affianca a quella delle fake news che da tempo interessa e fa discutere gli esperti e, all’epoca del Covid-19, torna alla ribalta con nuovo vigore, suscitando un vivace dibattito.
Infatti, proprio come i virus, le notizie false sul Coronavirus corrono e si diffondono in rete.
Nel linguaggio comune, le fake news sono conosciute come “bufale”, ovvero notizie sensazionalistiche, basate su fatti e dati talvolta inesistenti, messe in circolazione da fonti non attendibili, in grado di raggiungere un numero illimitato di persone, grazie alle molteplici condivisioni favorite dalla tecnologia digitale.
Sarà capitato a tanti di leggere o sentire che il Covid-19 muore se esposto ad alte temperature, che è preferibile bere tisane calde per uccidere il patogeno, che occorre puntare sulla vitamina C per rafforzare le difese e prevenire il Sars-Cov-2, che sono consigliati gargarismi per espellerlo e che il 5G favorisce l’epidemia da Coronavirus, in quanto le onde elettromagnetiche permetterebbero una diffusione più veloce della malattia.
Si tratta solo di alcuni esempi di fake news che alimentano la disinformazione e incrementato allarmismo e confusione tra la gente.
In passato, l’argomento delle informazioni non veritiere aveva interessato i giuristi, perché il tema era legato all’esercizio di diritti sanciti dalla Costituzione, tra cui la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.).
Una libertà, quest’ultima, che affonda le proprie radici nel concetto di uomo “illuminato”, per cui già nell’art. 11 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, francese, del 1789, la libertà di manifestazione del pensiero veniva definita come “-omissis- uno dei diritti più preziosi dell’uomo -omissis-”.
Una vera e propria rivoluzione se si pensa che, prima di allora, le “opinioni” che contavano erano solo quelle di una élite dominate e, con l’affermarsi della libertà di manifestazione del pensiero, le opinioni che contano diventano quelle di tutti.
Oggi, però, il diritto alla libertà di espressione non può essere inteso solo attivamente, ma deve essere interpretato anche nella sua accezione passiva, ovvero come diritto dell’individuo ad essere correttamente informato.
Pertanto, la creazione e la divulgazione di una notizia falsa, costituisce violazione e abuso della libertà di espressione costituzionalmente garantita.
La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), all’art. 10, prevede che: “Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera -omissis-“.
Le informazioni che circolano devono essere trasparenti e veritiere, con la conseguente possibilità, per il legislatore, di intervenire su quelle notizie prive di tali requisiti che non godono della tutela costituzionale.
Ma perché, allora, abbiamo a che fare, quotidianamente, con “bufale” travestite da vere e proprie notizie che circolano sul web, sui social e, purtroppo, sempre più frequentemente, anche sui nostri telefoni mobili?
Si sa, la rete e i social network fungono da cassa di risonanza un po’ per tutte le notizie, sia per quelle vere che per quelle false ed è sicuramente più facile apprendere le novità dal web che non da altri mezzi di comunicazioni, ma occorre prestare molta attenzione a ciò che si legge e all’uso che se ne intende fare.
L’obiettivo dei vari siti internet che pubblicano o promuovono notizie false è quello di ottenere un alto numero di visualizzazioni (click), così da poter trarre dalle visite un vantaggio economico oppure garantirsi una via d’accesso agli strumenti informatici degli utenti per copiare, criptare o eliminare dati sensibili, senza dover chiedere nessuna autorizzazione al proprietario.
Ma la vera novità, ai tempi del Coronavirus, è la divulgazione, attraverso la comune applicazione di messaggistica privata WhatsApp, di fake news aventi contenuto verosimile o, comunque, non molto distante dalla realtà.
Sarà capitato a molti di ricevere messaggi contenenti comunicati a firma della Protezione Civile (poi non rivelatisi tali), audio con testimonianza di medici o infermieri relativi a quanto accaduto negli ospedali italiani a pazienti ammalati di Covid-19, ricoverati in terapia intensiva.
In quest’ultimo caso, il problema principale è costituito dal fatto che si tratta di una comunicazione con contenuto di per sé credibile, anche per la sua contestualizzazione spazio-temporale, accompagnata da una registrazione audio dove la voce gioca, indubbiamente, un ruolo chiave.
Infatti, attraverso l’intonazione e le pause del discorso, le emozioni vengono trasmesse più facilmente e la comunicazione risulta più efficace (rispetto alla forma scritta) e, quindi, l’attendibilità della fonte passa, automaticamente, in secondo piano.
Ciò, accade in un momento particolarmente delicato in cui l’emergenza sanitaria e la mancanza di rimedi idonei a curare e prevenire il Coronavirus, destabilizzano e creano terreno fertile per incertezze e paure che, come si sa, rendono le persone più vulnerabili e inclini a prendere in considerazione tutte le informazioni inerenti l’argomento, indipendentemente dal mezzo o dalla forma con cui si manifestano.
Inoltre, nella maggior parte dei casi, i messaggi vocali provengono da persone conosciute che fanno parte dei nostri contatti telefonici.
Il dato che dovrebbe far riflettere e destare i primi dubbi è che non si può accertare la provenienza originaria del messaggio e l’attendibilità della fonte: se è vero che si tratta di messaggi provenienti da persone conosciute è, altresì, vero che, in alto, recano l’indicazione “inoltrato”, per cui non si tratta di un messaggio indirizzato solo a chi lo riceve, bensì proveniente da chissà chi e destinato a chissà quante altre persone!
Per contenere la problematica della circolazione di notizie false e fuorvianti, le grandi Aziende informatiche stanno studiando metodologie e funzioni che permettano di poter verificare velocemente (fact-checking) la validità dei contenuti ricevuti dagli utenti, mediante l’invio ad appositi numeri telefonici o ad applicazioni, nel caso in cui si tratti di messaggistica privata, ferme restando le già esistenti piattaforme pubbliche (tipo pagellapolitica.it) o siti noti (tra tanti, www.bufale.net) su cui è possibile effettuare la verifica della fondatezza della notizia posseduta.
Dal punto di vista legale non mancano, ovviamente, i progetti per “regolamentare” la comunicazione sul web e le notizie false, sia a livello europeo che nazionale.
Per quanto riguarda più specificatamente l’Italia, attualmente manca una legislazione ad hoc per contrastare in modo mirato la diffusione delle fake news e scoraggiarne gli autori.
Pertanto, ai fini della punibilità del suo autore, la notizia falsa deve essere analizzata dall’Autorità Giudiziaria e ricondotta a una o più fattispecie delittuose già esistenti nel nostro Codice Penale.
Infatti, chi dà vita e pone in circolazione una fake news può integrare diversi reati, a seconda del contenuto e delle finalità della notizia medesima.
Senza entrare troppo nel merito della questione (che comporterebbe una dissertazione lunga e complessa), è ivi possibile affermare che integra il reato di diffamazione (art. 595, comma 3, cp) chi, con notizia falsa, lede la reputazione altrui, in forma aggravata, poiché l’offesa viene veicolata attraverso la stampa (e il web), ed è, pertanto, in grado di raggiungere molti soggetti, velocemente.
Commette, invece, il reato di pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico (art. 656 cp), chiunque pubblichi o diffonda notizie con tali caratteristiche che non siano, però, idonee a far scattare le procedure d’emergenza delle Autorità.
Chi, invece, annunci disastri ed epidemie inesistenti tali da mettere in allerta Autorità, Enti o persone che esercitano un pubblico servizio integra, invece, il reato di procurato allarme, ex art. 658 cp.
Ogni volta che una notizia falsa, divulgata anche senza particolari finalità o ritorni personali, abusi della credulità popolare, integra il reato previsto dall’art. 661 cp, punito con ammenda.
Quando la fake news viene diffusa nell’intento di turbare il mercato dei valori o delle merci (manipolazione speculativa), il reato commesso è quello di distorsione del mercato ex art. 501 cp, più conosciuto come aggiotaggio.
In ipotesi più particolari la fake news può integrare anche il reato di truffa ex art. 640 cp: è il caso in cui la falsa notizia sia finalizzata ad indurre qualcuno in errore incidendo sulla sua capacità negoziale, in quanto idonea a integrare quegli artifici o raggiri che l’autore deve porre in essere per rispondere di tale reato (risponderà, per esempio, di truffa chi attivi una raccolta fondi per aiutare la ricerca scientifica sul Coronavirus e indichi, ai fini dei versamenti, il proprio IBAN e non quello dell’Istituto di ricerca).
Anche la giurisprudenza è intervenuta sul punto.
Il Tribunale di Catania, chiamato ad esprimersi relativamente alla richiesta di risarcimento del danno in seguito alla diffusione di notizie offensive, è stato uno dei primi ad utilizzare, nella parte dedicata alla motivazione della sentenza, il termine fake news.
Infatti, nella sentenza n. 3475 del 19.07.2017 il Giudice catanese ha affermato: “-omissis- le fake news possono rendere irrespirabile l’aria di una comunità di poche migliaia di anime -omissis” in cui le notizie che “-omissis- attribuiscono la patente di orco al danneggiato corrono di bocca in bocca a soddisfare l’insana sete di quanti si beano a vedere il mostro di turno sbattuto in prima pagina –omissis”.
Pertanto, la mancata verifica delle fonti è stata oggetto di condanna, in quanto una notizia non accuratamente vagliata può dar luogo ad una vera e propria fake news.
Anche il Tribunale di Torino con la sentenza n. 2861 del 09.06.2018 ha affermato che il giornalista è tenuto a fare un rigoroso vaglio delle fonti da cui ha attinto la notizia prima di diffonderla, qualsiasi mezzo utilizzi, per cui anche il web.
Si tratta di un giudizio di bilanciamento tra diritto di cronaca e diritto alla reputazione dei soggetti coinvolti, che passa attraverso la misura della verità che il lettore deve pretendere da chi divulga la notizia.
In conclusione, si può affermare che la libertà di parola, di pensiero e di espressione costituiscano il fulcro della nostra democrazia, anche se talvolta finiscono per diventarne un limite.
A questo punto è lecito domandarsi, viste le conseguenze penali in cui può incorrere l’autore di una notizia falsa, cosa accade a chi, invece, le fake news le diffonda.
Condividere false informazioni, in linea di principio, non integra nessun reato, a meno che la falsa notizia non danneggi le altre persone e a patto che l’utente sia in buona fede.
Qualora chi diffonda la notizia falsa ne abbia, invece, consapevolezza e nonostante ciò proceda ugualmente alla divulgazione, allora anch’egli sarà perseguibile al pari di chi la fake news l’ha creata.
Occorre, infine, prestare attenzione anche alla diffusione della notizia falsa accompagnata da un commento con cui il soggetto esprima la propria opinione riguardo al fatto, ovvero denigri o conferisca valore alla notizia: in questo caso potrebbe discenderne una partecipazione attiva alla commissione del reato, con conseguenze penali, in quanto vi è da presumere che prima della condivisione la notizia sia stata letta e compresa.
Avv. Elisa Spingardi
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